1a giornata eucaristica: S. Messa ore 20:30 – meditazione su Giovanni 21, 1-3
Dopo questi fatti, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: “Io vado a pescare”. Gli dissero: “Veniamo anche noi con te”. Allora uscirono e salirono sulla barca; ma in quella notte non presero nulla.
Iniziamo questa sera l’esperienza particolare delle giornate Eucaristiche. Forse vale la pena all’inizio rammentare quanto il Papa, qualche settimana fa, ha ricordato alla Chiesa. I prossimi mesi, diceva il Papa, ci condurranno all’apertura della Porta Santa, con cui daremo inizio al giubileo; si tratta dell’anno 2025. Vi chiedo di intensificare la preghiera per prepararci a vivere bene questo evento di grazia e sperimentarvi la forza della speranza di Dio. Per questo, diceva domenica 21 gennaio scorso, iniziamo oggi l’anno della preghiera, ovvero un anno dedicato a riscoprire il grande valore e l’assoluto bisogno della preghiera nella vita personale, nella vita della chiesa e nella vita del mondo. A me pare che queste giornate di preghiera, fondamentalmente davanti al Signore, siano un segno bello, forte, profondo, di chi vuole impegnarsi a vivere nella preghiera, soprattutto nella preghiera davanti all’Eucarestia. Noi abbiamo molto bisogno di questo, il mondo ha bisogno di questo. Soltanto che, forse, noi siamo più attratti dalle cose evidenti, dalle cose che in qualche modo appaiono, dalle cose che fanno un po’ di rumore, mentre la preghiera è qualcosa di nascosto, è qualcosa che viene vissuto nel nascondimento e non sempre tutti possono vedere. Eppure la fecondità della vita della Chiesa e anche la fecondità del mondo stesso è in fondo nascosta nell’Eucarestia, che in questi giorni siamo invitati ad adorare.
Che cosa faremo noi in questi giorni? Se dovessimo rispondere alla domanda di qualcuno: “Ma cosa vai a fare?”. Forse anche se qualcuno ci dicesse: “Ma anche stasera cosa esci a fare? A che cosa serve?”. Per un certo verso dovremmo rispondere che non serve a niente. E allora forse saremo tentati, noi gente di azione, a dire: “Ma se non serve a niente perché lo facciamo”. Perché la mentalità della produzione l’abbiamo fatta entrare anche nella dimensione della fede, mentre la fede ci ricorda che è molto importante stare davanti a Dio. Perché chi sta davanti a Dio riconosce che il mondo ce l’ha in mano Lui, che tutto dipende da Lui e che noi possiamo rispondere ad una chiamata, ma non siamo noi gli autori, non siamo noi i creatori del mondo. Allora, stando davanti al Signore, in questo tempo di preghiera, la proposta che vorrei fare in questi giorni, molto semplice, è quella di ritornare sull’ultimo capitolo del Vangelo di Giovanni. Il capitolo 21, è proprio l’ultimo capitolo, qualcuno dice che è una aggiunta, comunque è un bellissimo capitolo che abbiamo iniziato questa sera a leggere. Solo i primi tre versetti, poi andremo avanti domani pomeriggio e concluderemo domenica pomeriggio. È bene soffermarsi un attimo sul Vangelo di Giovanni, come un breve riassunto, il Vangelo di Giovanni, il quarto Vangelo, noi diremmo il Vangelo per persone che sono abbastanza preparate, che hanno già scelto di stare dalla parte del Signore, che sono cristiani maturi. Il Vangelo di Giovanni lo potremmo dividere in tre parti. I primi 19 capitoli sono praticamente un trattato di teologia. Giovanni ha fatto un discorso su Gesù fino alla croce, quando Gesù ad un certo punto dalla croce dirà: “Tutto è compiuto”. E qui finisce il Gesù storico, il Gesù che sta in mezzo a noi, il Gesù uomo che vive, che ha vissuto su questa terra.
Poi c’è il capitolo 20 che è un discorso sullo Spirito Santo. Gesù sulla croce, prima di morire, dona lo Spirito, gli apostoli lo ricevono e lo Spirito li invia.
E poi, infine, c’è il capitolo 21, quello che abbiamo ascoltato, che ascolteremo in questi giorni e che cercheremo di commentare. È un piccolo trattato, noi diremmo, di ecclesiologia, cioè un piccolo trattato sulla Chiesa, sulla comunità cristiana, sulla comunità che vive grazie al dono dello Spirito, la stessa vita di Gesù. E Giovanni ci sta dicendo che Gesù non è scomparso, ma continua a vivere in mezzo ai suoi nella Chiesa. Il Gesù risorto vive in una comunità che vive. Noi dovremmo dire che il Signore Gesù, in questa parrocchia, in questo paese vive attraverso la comunità cristiana che qui vive e opera.
Allora ci lasciamo condurre e vorrei semplicemente commentare questi primi 3 versetti del capitolo 21 del Vangelo di Giovanni. Innanzitutto dove avviene questa scena? Non siamo più a Gerusalemme, siamo all’aperto e siamo sul mare o sul lago di Tiberiade. Quando avviene tutto questo? Avviene tra l’alba e il giorno, cioè tra la notte e il giorno. La nostra vita, se ci pensiamo bene, è sempre capace di rimanere in un albeggiare, uno stadio intermedio, non pienamente nella notte, ma neppure pienamente nella luce. Anche la vita cristiana, anche la vita spirituale, non è mai tutta una notte buia sempre, ma neppure una luce sfolgorante costante. La vita cristiana, come la vita del uomo d’altra parte, è questo passaggio tra luce e ombre, tra giorno e notte. E dove si trova Gesù in questa scena? In tutta questa scena sta sulla terra ferma, mentre gli altri, se ricordiamo il racconto, stanno o in mare o sulla spiaggia, ma invece Gesù sta un po’ più indietro sulla terra ferma. Diversa l’esperienza del Vangelo, lo conosciamo, penso, di quando arriva la tempesta e tutti gli apostoli sono sulla barca insieme con Gesù che dorme. Viene svegliato: “Ma non ti interessa che stiamo morendo noi?”.
Gesù qui, a questo punto è un po’ indietro sulla terra ferma, c’è già stata la resurrezione e i discepoli presenti sulla spiaggia sono sette: Simon Pietro, Tommaso, Natanaele di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo che sono Giovanni, l’evangelista che racconta, Giacomo e altri due discepoli, in tutto sette. Il numero sette designa la completezza, la pienezza, ma mentre alcuni discepoli vengono chiamati per nome, quindi con una loro identità, una loro storia, una loro vita, di loro sappiamo anche alcune cose, alla fine si parla anche di altri due discepoli, senza nome; qui ognuno potrebbe mettere il proprio nome, su quella spiaggia. Ciò vuol dire che su quella terra ci siamo tutti. Mi viene in mente un altro brano, sempre nel Vangelo di Luca, il capitolo 24. Ricorderete la sera di Pasqua, i due discepoli di Emmaus che tornano un po’ sconsolati, un po’ depressi anche, con passo molto fermo, non hanno nessuno entusiasmo, vedono Gesù, ma non si accorgono neanche che è Lui, sono chiusi nel loro dolore, ma anche nella loro sfiducia. Viene detto dei discepoli che uno dei due ha nome Cleopa, ma dell’altro non si dice il nome ed è bello che noi possiamo sentirci dentro queste figure che non hanno nome, perché l’esperienza che stanno facendo queste persone è l’esperienza che abbiamo fatto anche noi oggi, che abbiamo fatto in questa settimana e che continueremo a fare nella vita.
Al terzo versetto, l’ultimo, Simon Pietro dice: “Io vado a pescare”. Notate che siamo tornati indietro; ricordate all’inizio, proprio all’inizio del Vangelo, Gesù passava per la riva del mare sulla spiaggia e ha chiamato questi pescatori: “Venite, seguitemi, venite dietro a me”. Quindi vuol dire che questi uomini alla fine, Gesù è morto, lo hanno visto, tutto e compiuto, si è concluso tutto, ma non l’hanno ancora incontrato come Risorto, loro sono tornati a casa in Galilea e fanno quello che hanno sempre fatto. Tornano alle loro casa e alle loro famiglie, sono tornati anche al loro lavoro: “Io vado a pescare”.
Il mare, il mare nella Bibbia indica il male, il peccato e Pietro, che rappresenta la Chiesa, è il pescatore, è l’immagine della Chiesa che va a pescare gli uomini dentro il mare. Il mare, questa immagine del male, queste onde che sono il segno delle tentazioni, della forza del male, potremmo dire che, fuori di metafora, la Chiesa si compie, si realizza, vive l’unione con il Padre, solo nel momento in cui si getta dentro nella storia del male, “io vado a pescare” nel quotidiano e cerca di tirare fuori i fratelli dal male. Vedendo Pietro gli altri dicono: “Veniamo anche noi con te”. Salirono sulla barca, lavorarono tutta la notte, perché si pesca di notte, e non presero nulla. È deludente questa cosa, è deprimente, lavorare tutta una notte e non avere nulla. Come se uno dovesse andare a lavorare e alla fine del mese gli si dice “guarda mi dispiace ma noi di soldi non ne abbiamo e non ti diamo nulla” oppure “hai fatto un certo lavoro molto bello, ma non ci interessa”. Sono tutti uniti con Pietro, ma non presero nulla. Questa espressione dovremmo portare a casa questa sera “quella notte non presero nulla” perché? Perché ci dobbiamo chiedere se questa è stata una grazia o una disgrazia. I fallimenti ci interrogano e possono talvolta anche essere importanti. Se noi ci pensiamo bene nella nostra vita abbiamo imparato più dai nostri errori che dalle nozioni che ci sono state consigliate; uno intuisce che una cosa è vera e buona, non solo perché “me l’hanno detto, perché l’ho capito io, perché l’ho letto da qualche parte”, alla fine uno sperimenta il bello, il buono, il giusto, il vero, quando ci passa dentro nelle cose e si può imparare anche dai propri errori, si può imparare anche dai propri fallimenti, si può imparare anche dopo avercela messa tutta e non aver preso nulla. Questo nulla è una parola molto forte: io mi sono impegnato e non ho portato a casa a nulla. Forse ricorderemo, nel Vangelo di Luca, Gesù che vede che Pietro non prende nulla e ad un certo punto Gesù dice a Pietro: “Butta la rete”. Noi ci saremmo arrabbiati e avremmo detto: “Taci tu che non sei pescatore, questo è il nostro lavoro, lo conosciamo bene; poi ci stai dicendo di prendere il largo” oppure “Forse ti conviene prendere tu il largo, questo non è il momento giusto, ho lavorato tutta la notte”. Pietro infatti lo dice: “Maestro abbiamo lavorato tutta la notte, ma sulla tua Parola getterò le rete ancora”.
Ecco, poi domani lo vedremo, non vorrei fermarmi questa sera su questo aspetto negativo, ma è un aspetto che ci interroga un po’, perché anche noi tante volte abbiamo l’impressione di lavorare senza prendere nulla. Può essere, per esempio, l’aspetto educativo, chi ha dei figli lo sa bene, chi ha dei figli o dei nipoti adolescenti sa bene cosa vuol dire non prendere nulla, non portare a casa nulla, oppure magari qualche rapporto di parentela o qualche rapporto di lavoro, oppure qualche scelta che bisogna fare nella vita, ci sembra di aver fatto anche molto, ma alla fine la domanda è “ma cos’è che non è andato bene?”. Magari qualche volta ci colpevolizziamo anche o diamo la colpa a qualcuno: “Per forza è andata male è colpa di questo, è colpa di quello, colpa dell’altro”. Oppure qualcuno, peggio, si dà la colpa e dice: “Ma io ho sbagliato tutto, se non ho preso nulla perché ho sbagliato tutto”. L’esperienza del fallimento, se guardato in un certo modo, e lo vedremo soprattutto domani, può essere una grazia.
Ecco chiediamo al Signore questa sera, in questa Eucarestia, che ci aiuti in questi giorni ad avere il coraggio di stare un po’ con Lui. Forse qualche volta uno dice: “Cosa devo stare a fare tanto mi sembra di non portare a casa nulla, poi sono qui ma sono distratto, poi sono qui ma penso a quello che devo fare a casa, ma poi non so cosa dire, poi mi addormento, poi tante cose”, ma alla fine chi sta davanti al Signore, anche se pensa di non prendere nulla, qualcosa accade, deve solo avere il coraggio di perseverare e di rimanere con il Signore.
Chiediamo questa grazia stasera, la grazia di poter credere che la nostra vita non è inutile e anche ciò che noi non riusciamo a vedere come positivo, come qualcosa di valore, come qualcosa che sta facendo crescere, come qualcosa che realizza, anche se noi non lo stiamo vedendo, il Signore nella nostra vita agisce e porta avanti quello che noi magari neppure possiamo immaginare.